Simboli buddisti: in questo articolo scopriremo i principali simboli buddisti con significato e approfondimenti.
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SIMBOLI BUDDISTI PRINCIPALI:
Nella culla del Buddhismo in India nord orientale e nelle sue diramazioni asiatiche, oltre alla peculiare via tibetana denominata Vajrayana si distinguono gli otto simboli di buon auspicio che illustriamo all’inizio seguiti da tre simboli universali a fondamento della tradizione. Questo ristretto gruppo rappresenta l’apice della moltitudine simbolica buddhista in cui innumerevoli significati si accompagnano spesso ad una sublime interpretazione estetica.
Qui di seguito elencheremo tutti i principali simboli buddisti.
1. LA CONCHIGLIA
La conchiglia fa parte dei simboli buddisti. È un simbolo che ha un duplice significato, da un lato l’azione e il risveglio dall’ignoranza, e dall’altro una protezione contro gli spiriti maligni. In sanscrito è chiamata Sankha, quasi sempre bianca con la spirale il cui verso è antiorario. Fin dall’antichità viene utilizzata come uno strumento musicale di richiamo: con significati bellicosi come la chiamata in battaglia, o per esortare alla raccolta l’assemblea religiosa nel Buddhismo, ridestando e accompagnando i praticanti verso gli insegnamenti del Buddha. Il suo suono riassume la melodia del Dharma, e la sua profondità sonora raggiunge e tocca qualunque essere senziente.
2. IL NODO INFINITO
Il nodo infinito fa parte dei simboli buddisti. Questo nodo è la connessione di ogni cosa, l’armonia dell’universo dove ogni singolo elemento è interconnesso senza distinzione. L’intreccio senza inizio né fine esprime un perpetuo ciclo di causa ed effetto; un ammonimento di quanto contino le singole parole o azioni che se hanno uno spirito positivo generano un effetto ancor più positivo. Questo simbolo, in sanscrito Srivatsa, indica molti altri intrecci uniti naturalmente e indissolubilmente, come la Saggezza e della Compassione, come l’energia maschile e quella femminile, così come l’infinita conoscenza del Buddha e i suoi insegnamenti.
3. IL FIORE DI LOTO
Anche il fiore di loto fa parte dei simboli buddisti. Universalmente noto come simbolo della purezza, il loto, in sanscrito padma, ha un profondo significato associato alla vera natura dell’uomo, specie in molte culture orientali. la purificazione di corpo e mente nel fiorire della liberazione. Il loto, delicato e forte allo stesso tempo, come l’essere umano deve affrontare le avversità della vita: le sue radici sono immerse nel fango degli stagni dove
cresce naturalmente, e ogni notte si immerge nell’acqua per rifiorire immancabilmente al sole del mattino dopo, perfettamente pulito e libero come ogni mente dovrebbe essere. Ecco perché questo fiore puro è da sempre associato alla rinascita e all’illuminazione spirituale, alla liberazione che vince ogni ostacolo.
4. LA COPPIA DI PESCI
Anche la coppia dei pesci fa parte dei simboli buddisti. Ecco la felicità nei due pesci, raffigurati in parallelo verso l’alto e verso il basso, uno stato di gioia interiore che è fatto di libertà, di abbondanza e fertilità. Non a caso sono ancor oggi usati come regalo di nozze a simboleggiare unione e fedeltà. Essi, in sanscrito Gaurmatsya, rappresentano la mancanza di paura e il sapersi muovere nella sofferenza fronteggiandola e superandola perchè dentro di noi abbiamo la grazia della consapevolezza che ci porta alla salvezza.
5. IL PARASOLE
Il parasole fa parte dei simboli buddisti. La sofferenza ha bisogno di essere tenuta a bada con una protezione sia fisica che soprattutto spirituale. Questo oggetto che protegge dal sole e dalla pioggia, spesso usato da persone agiate, simboleggia il benessere che il suo impiego comporta. E in effetti il parasole, in sanscrito Chatra, viene spesso utilizzato anche come un baldacchino durante le processioni e le cerimonie per proteggere qualcosa di sacro dalle intemperie naturali. Ha in sé quindi un che di potere regale, oltre ad assicurare la protezione del Dharma su ogni persona, affiancando ciascuno nel suo percorso di annullamento della sofferenza e di rinascita o risveglio finale.
6. IL VASO
Anche il vaso fa parte dei simboli buddisti. Il vaso per natura contiene, e nel buddhismo rappresenta l’abbondanza spirituale del Buddha stesso, un vero tesoro che non diminuisce mai, un tesoro inesauribile che non è solo fatto di spiritualità ma anche di longevità e di ricchezza. Rappresenta anche il principio chiave della vittoria della saggezza sull’ignoranza, il trionfo sull’ego animato da desideri, disequilibrio e negatività. Il vaso, in sanscrito kalasa, è uno dei pochi beni che i monaci buddhisti possono possedere perché contiene l’umile ma preziosa acqua e perciò è imprescindibile.
7. LA RUOTA DEL DHARMA
La Ruota del Dharma fa parte dei simboli buddisti e in sanscrito dharmacakra, simboleggia l’auspicio di seguire gli insegnamenti del Dharma, e si muove ciclicamente senza un inizio né una fine, in un ciclo di causa e effetto dove ciascuna cosa è interconnessa, ricordando che ogni azione o pensiero positivo una volta sviluppato produce a sua volta positività e ci rende migliori, che è l’obiettivo a cui dobbiamo tendere! Il suo significato vede la ruota intesa come arma, capace di spazzare via tutti gli ostacoli che impediscono agli uomini di liberarsi dalla sofferenza.
8. LA BANDIERA DELLA VITTORIA
Il vessillo della vittoria fa parte dei simboli buddisti. Anche questo simbolo rappresenta la vittoria della saggezza sull’ignoranza, un autentico vessillo o bandiera dell’illuminazione del Buddha. È il prevalere contro la propria meschinità interiore che ci impedisce di godere della vita così com’è. Non a caso la bandiera della vittoria, in sanscrito dhvaja,
è presente su tutti i tetti dei monasteri soprattutto tibetani, simboleggiando la consapevolezza che dall’alto governa e annulla paura e negatività.
9. IL TAO
Il Tao oltre ad essere a fondamento del taoismo cinese è al tempo stesso uno dei simboli più conosciuti della filosofia buddhista e incarna il concetto del flusso, lo scorrere del tempo, l’eterno. Il Tao è la forza vitale che fluisce nell’Universo e lo sorregge ma rappresenta anche l’Universo stesso. Al Tao occorre abbandonarsi senza resistenze, perché è la Via che ogni uomo deve percorrere per vivere in pienezza. Il celebre simbolo rappresenta lo yin e lo yang, intrecciati armonicamente tra loro: i due estremi, due concetti opposti ma complementari tra loro, in un perpetuo movimento per cui laddove sembra tutto yin ecco che il puntino dello yang fa capolino, e viceversa, a indicare il perpetuo movimento e la compresenza di entrambi in ogni cosa; come il femminile e il maschile, il bianco e il nero, la terra e il cielo, la luce e l’oscurità.
10. OM
Om fa parte dei simboli buddisti. E’ una sillaba sacra di antichissima origine induista, citata negli antichi testi Veda già nel 3000 a.C. e indicata con il simbolo ॐ. Esso rappresenta uno dei mantra più famosi e potenti anche della filosofia buddhista e non solo in quanto lo troviamo prepotentemente anche nello Yoga. Potremmo dire che è il mantra di tutti gli altri mantra, e per l’induismo è la vibrazione o il suono sacro e primordiale (pranava mantra) che ha creato l’intero universo. In realtà OM è formato da 3 suoni: A,
U e M che hanno a loro volta un significato specifico: A è lo stato di veglia, ma anche l’oscurità, l’ignoranza e il tempo presente; U è lo stato di sogno, il regno dell’inconscio, legato al dinamismo e al tempo passato; M è lo stato di sonno profondo, alla verità, alla purezza, all’assenza di coscienza, come prologo al tempo futuro.
11. UNALOME – SIMBOLI BUDDISTI
Unalome fa parte dei simboli buddisti. È il simbolo forse più profondo e conosciuto nel buddhismo e rappresenta il percorso esistenziale dell’essere umano; il cammino di ogni singola esistenza che passa gradualmente dal caos totale alla piena consapevolezza e pace con il mondo. La Spirale, è l’inizio del cammino, lo stato di confusione, paura e insicurezza dell’uomo. A seguire la linea a zig-zag, testimonia una iniziale ma
difficoltosa presa di coscienza, che spesso induce a ripetere gli stessi errori, ma inevitabile per progredire. Ecco poi la linea retta, laddove l’uomo inizia ad essere consapevole di ciò che non vuole e di ciò a cui ambire per migliorarsi; egli si comprende, ha chiari i valori e lo scopo della sua vita, riconosce la sofferenza e inizia ad accettare ogni genere di evento per quello che è. E infine al vertice il Puntino che rappresenta il nirvana, come piena e totale consapevolezza e accettazione della vita, in cui gli accadimenti non sono belli o brutti ma sono e basta, senza interpretazioni alcune.
APPROFONDIMENTI SUI SIMBOLI BUDDISTI
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COSA E’ IL BUDDISMO? – SIMBOLI BUDDISTI
IL BUDDHISMO – SIMBOLI BUDDISTI
Descrivere in maniera più semplice possibile il Buddhismo è possibile partendo dall’idea che si tratta di una dottrina concreta per la quale il lavoro interiore è un dovere irrinunciabile per cambiare lo stato di infelicità in cui è immerso il mondo.
Accostato alle più diffuse religioni asiatiche esso è pragmatico e fiducioso nelle capacità umane al pari del Confucianesimo i cui principi intendono trasformare un uomo comune in un uomo nobile, mentre è decisamente più lontano da uno spiritualismo non impegnato e non-agente come quello Taoista, e dall’Induismo come vedremo.
Il Buddhismo è una filosofia e al contempo è anche una religione, perché si può essere buddhisti laici osservandone i principi nella propria esistenza, o si può essere religiosi, interpreti del credo, delle sue osservanze e dei suoi luoghi, come fanno i monaci e i loro maestri-guru con i vari rituali, studiando i Canoni ovvero i testi sacri, all’interno di monasteri; o una combinazione di entrambi ovviamente.
In realtà è una tradizione filosofica e religiosa allo stesso tempo di oltre 2500 anni, ben aldilà di alcuni tratti esteriori che un po’ tutti conosciamo, di compassione, mansuetudine, amorevolezza, rispetto.
È una dottrina complessa e ricca di interpretazioni, con un corpus di testi pressochè infinito (si pensi che il solo Canone cinese è oltre settanta volte la Bibbia), con mezzo miliardo di praticanti soprattutto in Asia, centinaia di migliaia di maestri e monaci che dedicano l’intera vita nell’adottare fedelmente gli insegnamenti del Buddha.
Insomma, un ginepraio di interpretazione difficile da comprendere, tuttavia procedendo con ordine ed evidenziandone i punti cardine, pian piano la visione diverrà più chiara, che è esattamente quello che il Buddhismo si propone di fare nella ricerca dell’illuminazione o risveglio.
Quello che è certo è che inoltrandosi nella dottrina si verrà attratti dal suo fascino particolare, un’esperienza che accade a molti proprio per la sua sincerità: il Buddhismo riconosce i limiti dell’uomo ma proprio attraverso l’uomo stesso vuole renderlo migliore.
Cominciamo col dire che i tre gioielli, ovvero i pilastri su cui si fonda il Buddhismo e da cui tutto trae origine sono il Dharma cioè gli insegnamenti del Buddha, plasticamente raffigurato dal simbolo della ruota con gli otto raggi, il Buddha stesso, e il Shanga cioè la comunità dei praticanti.
Prendere rifugio nei tre gioielli significa per un buddhista, un po’ come un mantra, aderire al proprio credo e renderlo manifesto.
È una visione spirituale e pratica che non si inquadra in una cornice dogmatica tipica della maggior parte delle altre religioni, soprattutto le tre monoteistiche, in ordine storico Ebraismo, Cristianesimo e Islam, ma che si fonda e si sviluppa su valori etici quali l’amare sé stesso, l’amare gli altri e rapportarsi correttamente e armoniosamente con la realtà che è per sua natura impermanente e in continuo mutare.
Per questo non rapporto con un Dio supremo e per un continuo lavoro interiore è tipicamente una religione-visione orientale, vicino all’Induismo dal quale partì, al Taoismo e al Confucianesimo cinesi con i quali si confrontò, piuttosto che le sue diverse e successive derivazioni in primis lo Zen, in Giappone.
Come è noto il fondatore del Buddhismo fu il principe indiano Gautama Siddharta, il Buddha storico nato nel 480 a.C. nell’area nord orientale dell’India da una famiglia molto potente che regnava su uno dei tanti stati nei quali era suddivisa l’India dell’epoca.
Tutti i testi che narrano della sua vita, redatti in sanscrito la madre di tutte le lingue indoeuropee oltre che di quell’area orientale, evocano che già il concepimento (la madre si sarebbe congiunta nel sonno con un elefante bianco), e la nascita avvenuta senza dolore, erano segni premonitori di quanto straordinario sarebbe stato questo personaggio. Si racconta che fin dai primi istanti di vita dichiarò di essere venuto al mondo per portare l’illuminazione e per il bene di tutti gli esseri senzienti.
Il suo percorso iniziò tuttavia intorno ai trent’anni quando prese la decisione di abbandonare gli agi del palazzo immergendosi nella realtà tormentata, dolorosa e misera della popolazione del suo tempo.
Da un lato studiò a fondo le tradizioni religiose del tempo specie l’induismo che egli praticava in origine. Da esso, popolato da migliaia di dei capeggiati da Brahma come Dio supremo, e organizzato sulle caste, se ne distaccò mantenendo viva la sua profonda ricerca interiore.
Ma se nei Veda, i più antichi testi sacri induisti, era la fusione tra il sé personale (Atman) e il grande Sé (Bramhan) che portava alla sacra Unità tra individuo e universo, per il Buddha, proprio a causa dell’impermaneza il Sé individuale (anātman) non può esistere, con questo intendeva negare l’anima ma non la persona.
La questione è sempre stata dibattuta, e l’interpretazione più convincente è che il Buddha non negando la persona e i suoi attributi sensoriali quindi corporei e mentali, volesse chiamare Sé il loro insieme interdipendente, la loro attività simultanea, e non un Sé assoluto, permanente, distaccato quasi, e capace di sopravvivere alla morte del corpo.
Ma ciò che fonda l’unicità buddhista è che lui creò un percorso dottrinale nuovo il cui protagonista era l’essere umano che poteva e doveva fare un suo percorso interiore, senza bisogno di appellarsi ad un Dio metafisico.
Certo egli non negava l’esistenza di dei (deva), buoni e cattivi, che comunque disponevano di poteri limitati costretti come un comune mortale alla legge del karma.
Ragion per cui se il buddhismo non ha un Dio come quello delle religioni monoteiste, ha una straordinaria figura come il Buddha, definibile più come un maestro-medico dell’anima, un taumaturgo compassionevole, diversamente da un Messia, portatore di un messaggio rivoluzionario come il Cristo ad esempio.
Dall’altro lato sperimentò forme di vita ascetica sempre più elevate in un susseguirsi di momenti estatici il cui punto cruciale e celeberrimo fu senza dubbio l’avvenuta illuminazione, dopo un lungo periodo di meditazione sotto l’albero della Bodhi, un antico fico sacro nello stato indiano del Bihar.
Buddha ovvero il risvegliato, incontrò nella sua vita una moltitudine di persone a ciascuna delle quali dette il suo personale consiglio per migliorare la propria esistenza e abbandonare lo stato di dolore per condurre una vita di pace interiore, appunto come un medico che esegue una diagnosi e poi formula una prognosi per curare però la mente più che il corpo.
Il Buddhismo è proprio questo, privo di dogmi e al contrario composto degli insegnamenti che Siddharta si premurò di dispensare alle persone per farle raggiungere la felicità qui e ora.
Terminò la sua esistenza terrena nel 566 a.C. ma va ricordato che questa data non è del tutto attendibile in quanto esistono una moltitudine diverse di fonti, fatto salvo per il 22 maggio che i buddhisti celebrano universalmente come giorno della sua nascita.
L’insegnamento, fin dal primo celebre discorso che egli a trentacinque anni tenne ai suoi primi adepti nel parco delle gazzelle a Benares, si accompagnò ad un costante pellegrinare che pian piano allargò il numero dei discepoli più stretti e dei devoti.
Il cuore dell’insegnamento del Buddha risiedeva nelle quattro nobili verità, ovvero nel riconoscere che esisteva la sofferenza (dukka), che essa aveva un’origine o meglio diverse origini, che poteva cessare, e che vi era un modo o sentiero per far cessare la sofferenza raggiungendo l’illuminazione, attraverso un percorso detto nobile ottuplice sentiero.
Quest’ultima via è caratterizzata da un termine preciso quale rettitudine e si applica alla visione, all’intenzione, alla parola, all’azione, alla sussistenza, allo sforzo, alla presenza mentale, alla concentrazione.
In realtà si tratta di un vero percorso olistico alla vita, che abbraccia tutte le capacità emozionali, mentali, spirituali, e filosofiche dell’essere umano.
Un percorso che può avvenire gradualmente oppure anche se più raramente con un’immediata presa d’atto, che riconosce l’attaccamento alle cose e alle persone e la non accettazione di ciò che avviene e ci accade, all’origine del nostro dolore e che ci impediscono di elevarci.
Il nirvana, la realizzazione della propria illuminazione presuppone proprio abbandonare l’arrovellarsi sul perché le cose accadono da un punto di vista del proprio ego, procedendo consapevoli che ogni azione, ogni situazione della vita, ogni essere senziente o meno (quindi un uomo piuttosto che una foglia) è perfetto così com’è, e così deve accadere.
Che fosse difficile pervenire all’illuminazione lo testimoniò lo stesso Siddharta che fu più volte tentato da Mara, un deva che rappresentando la Morte spirituale cercò inutilmente di impedire il risveglio presentandogli elementi di seduzione, di piacere e di paura che legano gli uomini al Samsara, quello che i buddhisti definiscono come il ciclo delle morti e delle rinascite, l’oceano dell’esistenza, il mondo materiale terreno permeato di dolore e di sofferenza.
L’uomo comune vede la vita come un miraggio, un’illusione (māyà), la rete mentale nella quale egli è immerso perché afflitto dall’ignoranza (avidyā).
Agendo senza conoscere, l’uomo si muove secondo le proprie pulsioni e desideri, e non può che rimanere immerso nel Samsara.
Le quattro nobili verità e l’ottuplice retto pensiero formano la base dottrinale del buddhismo che tende costantemente ad ottenere uno stato di felicità e di amore tra gli esseri senzienti attraverso il riconoscimento e il superamento della sofferenza grazie alla compassione e alla meditazione.
La mente egoica è avvelenata dai tre veleni o difetti maggiori: rabbia, attaccamento, ignoranza, che determinano il Samsara, lo stato interiore da cui può uscire se e solo se, da dentro, vuole liberarsi da questa situazione esistenziale per arrivare all’altro stato esistenziale, il Nirvana, libero dai tre veleni.
È sempre dentro di noi che avviene lo scontro: l’ego come insieme di emozioni, sensazioni, pulsioni e paure, blocca il percorso verso la vera consapevolezza, verso il proprio Sé, la propria coscienza o luce interiore che dimora in pace dentro di noi e unico vero “testimone” della realtà; il Sé che è la fonte non solo dell’illuminazione buddhista ma di qualsiasi persona che voglia vivere in pienezza senza condizionamenti.
Un retto comportamento e l’accettazione dell’impermanenza delle cose, cioè la costante mutevolezza della realtà circostante, ci aiuta a camminare in pace nel mondo accettandone tutte le apparenti contraddizioni.
Strettamente correlata all’impermanenza è il concetto chiave di vacuità (sūnyatā), che pur con accenti diversi a seconda delle scuole esprime il concetto che la realtà non esiste in sé, ma emerge o si manifesta solo attraverso l’infinita continua interdipendenza delle cose, sempre mutevole e sempre nuova: tant’è che nemmeno tra Samsara e Nirvana esiste un confine identificativo: come dicono i buddhisti dalla forma emerge il vuoto e dal vuoto emerge la forma.
Se vogliamo quando un monaco crea un mandala esprime compiutamente l’esperienza di vita secondo il suo credo: con magistrale accuratezza crea degli autentici capolavori, ovvero vive la propria esistenza al meglio delle sue capacità; una volta terminato lo distrugge, così da un lato evita l’attaccamento e dall’altro indica quanto sia effimero e impermanente lo svolgersi delle cose.
Nell’immensità degli insegnamenti buddhisti senza voler semplificare troppo, possiamo indicare tre grandi vie: la prima detta Hinayana, o piccolo veicolo che si basa sui sutra del canone Pali ovvero la più antica raccolta dei discorsi del Buddha; divisa in molte scuole e oggi praticata solo in Sri Lanka.
Secondo questa dottrina il discepolo che raggiunge la buddhità non rinascerà più, grazie ad un’esistenza assolutamente rigorosa e di rinuncia al mondo.
La seconda detta Mahayana o grande veicolo, sviluppatasi nei primi secoli dell’era cristiana da parte di monaci e laici in quasi tutta l’Asia, tra cui Cina, Giappone, Corea, Tibet e Mongolia.
Per questa tradizione un discepolo mira a raggiungere l’illuminazione per diventare un Bodhisattva, cioè un essere che ritarda l’entrata nel Nirvana per aiutare gli altri sulla via della salvezza, quasi una figura angelica dal punto di vista cristiano.
Tra i molti testi di questa tradizione il più famoso è certamente il Sutra del Loto.
La terza via è detta Vajrayana, la folgore della via adamantina, che si sviluppò nel VII secolo d.C. in Cina, Giappone e soprattutto in Tibet.
Secondo questa tradizione si poteva conseguire l’illuminazione qui e ora; basandosi inizialmente sui sastra un termine induista che significa trattati o commentari postumi ai sacri testi (i sutra), si creò una forma di culto più orientata all’esoterismo e molto influenzata dai tantra, un termine induista che significa “trama” delle varie dottrine e dei loro testi di riferimento.
Tutte e tre le vie, esplicate nei tre diversi Canoni ovvero nelle lingue con cui sono stati scritti, pali, cinese e tibetano, hanno comunque sempre mantenuto un’unica fondamentale base dottrinale.
E così come ogni grande tradizione orientale o occidentale non sono mancati nel Buddhismo percorsi diversi e distintivi, pur nella comune centralità dei valori fondanti.
SUL KARMA – SIMBOLI BUDDISTI
Il termine deriva dal sanscrito karman, e significa un’azione che si è svolta, un lavoro, un dovere.
Come dicono gli induisti e ripreso poi nel buddhismo, il karma è una legge, un impegno costante, un’assunzione di responsabilità!
Noi esseri umani a differenza di una foglia non solo siamo vivi ma siamo anche senzienti, abbiamo una mente, immaginiamo proiettiamo; non funzioniamo come una pianta che una volta presa l’acqua funziona (perlopiù) sempre allo stesso modo.
Se la risposta della foglia è automatica quella dell’essere umano è una capacità di risposta potenzialmente libera, in ogni momento.
In realtà però noi non siamo liberi per tutta una serie di condizionamenti caratteriali che esistono nel presente ma sono anche eredità del passato; non solo, essendo esseri composti da corpo e mente che diciamo così viaggiano insieme, siamo spesso preda delle interpretazioni della mente e siamo condizionati ovviamente anche dal corpo.
Secondo la tradizione buddhista, noi come individui abbiamo quattro tipi di qualità: quelle della nostra persona ovvero il proprio peculiare dna, quelle fisiche e mentali, quelle tramite le esperienze date dal nostro livello di conoscenza culturale, e infine le caratteristiche innate o spontanee veicolate di vita in vita.
Quindi ognuno nella sua specificità come può influire sul karma?
In un solo modo dicono i Buddhisti, ovvero indirizzando l’energia e l’attenzione verso quelle cose o situazioni che ci rendono migliori, e di conseguenza ci rendono felici.
La pace interiore nasce non solo da un comportamento retto a tutto tondo, ma anche ad esempio esercitando delle passioni che ci fanno stare bene; così si evita di disperdere le nostre capacità in rivoli inutili e dannosi, diventando registi e non comparse della propria vita.
Tornando all’essere responsabili, lo si è nella consapevolezza che nell’esistenza tutto è correlato insieme, e che ogni pur minima azione, nella logica causa effetto, può essere finalizzata al bene o meno, e porterà un suo risultato positivo o negativo che si legherà agli altri innumerevoli risultati di azioni concomitanti nello stesso momento.
Io sono qui adesso in questo stato come sommatoria di una volontà personale, di un carattere che ho ereditato dal passato, e da condizioni esterne date dalle innumerevoli interdipendenze che legano insieme le singole parti.
Di più, il karma non ha nulla di definitivo: metaforicamente potremmo dire che è un work in progress dove la prospettiva non è essere il risultato del passato punto e basta, ma piuttosto l’agire nel qui e ora per creare le cause del proprio futuro.
Quello che conta è la motivazione in base alla quale si possono ottenere risultati molto diversi: se è egoistica nelle sue più svariate forme l’energia che si genera non è virtuosa e le azioni avranno il segno meno; al contrario le azioni che vengono compiute con amore e generosità verso l’altro saranno prevalentemente positive.
Quello che conta per un buddhista è quello che si vuole diventare, perchè nel continuo mutare del mondo quello che rimane, la costante di fondo, siamo noi.
E a dire il vero quello che si sta facendo in realtà lo conosciamo, perché ce lo dice la nostra coscienza: con l’egoismo sperimenterò sofferenza, invidie, diatribe varie; con l’amore sperimenterò rispetto, gratitudine e generosità: il tutto in una spirale continua e sempre più ampia.
Il karma quindi ha una sua coerenza di fondo, ed infatti quando si dice di avere un karma negativo o positivo non è sbagliato in quanto il karma ha una condizione potremmo dire che tende a crescere, vale a dire che più ci si comporta in un certo modo, poniamo a fin di bene, più ci viene facile comportarci così, e viceversa.
In particolare più si fa una certa azione più questa azione rinforza l’abitudine e si fissa nell’impronta della nostra esistenza.
È esattamente quello che viene ripetuto in molte altre tradizioni, come ad esempio quella cristiana, per cui il bene fa bene e il male fa male.
SULLA REINCARNAZIONE O RINASCITA- SIMBOLI BUDDISTI
Un’altra certezza del credo buddhista riguarda l’esistenza di vite passate e future, e per meglio dire l’assoluta convinzione di una continuità.
Questo corpo, questa vita non è altro che un momento nell’esistenza ciclica e continua di vita, morte e rinascita dove la fine non è altro che un passaggio.
Una questione da sempre ostica per la nostra visione occidentale, che nella sua visione lineare crede in un aldilà definitivo, premiante o punitivo in base ai frutti portati o meno nella singola vita trascorsa; una vita che non ha una seconda chance! La reincarnazione, ovvia per un buddhista praticante, crea i presupposti affinchè l’impegnarsi in questa vita favorisca poi le vite future.
Avere una vita significativa, anche se non piacevole o confortevole, implica che ogni giorno venga usato affinchè si migliori come persona, con più gioia, soddisfazione, amore, aiutando gli altri a fare lo stesso.
Una persona migliore, e un mondo migliore; e se si muore migliori di quando si è nati si cammina verso questa direzione.
L’idea della mortalità quindi se non è concettuale ci apre a renderla familiare nel senso di non avere paura della morte, e ad invecchiare bene senza quei condizionamenti e quelle abitudini che si sono formate nella vita.
Se si accetta la morte come una tappa del ciclo infinito in cui siamo inseriti è accettabile anche un’esistenza difficile, segnata dal dolore fisico o psichico perché non è la condizione definitiva ma solo una delle tante, per cui questo aspetto consolatorio è molto importante in una condizione di svantaggio.
Noi abbiamo il dovere di fare esperienze ed uscirne arricchiti, perché per metà sarà a favore del qui e ora e l’altra metà feconderà il futuro.
Ciò che diventiamo, come frutto di quello che abbiamo fatto in questa vita sarà la partenza della nuova vita, alla base di ogni nuova esistenza corporea nella quale si saranno incamerate le esperienze spirituali e interiori fatte dalla cosiddetta mente sottile, diversamente dalle esperienze sensoriali della mente grossolana che non fanno parte del bagaglio o impronta con cui ripartire per un nuovo viaggio.
Da una parte gli esseri comuni possono rinascere senza aver scelto in quale reame superiore o inferiore vivere ma sono legati al karma positivo o positivo che si portano in dote.
Essi girano incessantemente nell’esistenza come gira una ruota, ma appunto impegnandosi con rettitudine e pratiche virtuose nella vita quotidiana, con la forza e il potere della compassione e delle preghiere, potranno rinascere ai reami superiori secondo come detto la logica di “base-percorso-risultato” che li farà progredire verso il Nirvana, lo stato dove un individuo arriva a comprendere la legge universale che esprime l’intera realtà.
Dall’altra parte i bodhisattva, cioè coloro che hanno ottenuto la via della visione, non rinascono per il loro karma ma per la forza della loro compassione, e pur essendo vicini all’illuminazione lo fanno come detto per aiutare e beneficiare gli altri.
Nel buddhismo dobbiamo parlare di reincarnazione o di rinascita? Per provare a rispondere ci viene in aiuto la comparazione tra buddhismo e induismo specie nella corrente denominata Advaita Vedanta (Advaita letteralmente non due, e Vedanta fine dei Veda) che rappresenta il vertice spirituale del pensiero indiano.
Essi hanno delle analogie fondamentali, quali l’origine della sofferenza derivata dall’ignoranza, dall’attaccamento e dal farsi dominare dal corpo-mente che interpreta illusoriamente la realtà, ma divergono drasticamente sul tema del Sé.
L’Advaita esclude l’esistenza di due soggetti distinti, l’osservatore e l’osservato, dando valore solo all’esperienza diretta cioè l’osservare, lo sperimentare, come unica forma di conoscenza reale e non deformata.
E questo avviene grazie ad un Sé consapevole, preesistente, eternamente dato e illimitato, che consente all’essere di superare la dualità raggiungendo la sua vera natura, libera e spontanea, ovvero la liberazione o moksa; un tale Sé necessariamente va aldilà della morte corporale e quindi possiamo parlare di reincarnazione come intesa dall’induismo.
Per Buddha invece che negava il Sé come manifestazione permanente, per cui alla morte corporale vi è un passaggio di contenuti e interazioni preesistenti in una nuova esistenza, possiamo più correttamente parlare di rinascita.